Nel suggestivo chiostro della Casa della Musica e delle Culture di Velletri (Roma), ho incontrato Dennis Ferrante, classe 2000, studente dell’Accademia di Belle Arti di Roma e futuro fashion designer, ossia stilista, che ha già al suo attivo tre sfilate presso ambienti di rilievo, come il Campidoglio e la Centrale Montemartini di Roma. Dennis ha partecipato con una collezione di moda da lui realizzata per il 2024, dopo essere stato selezionato insieme ad altri dodici candidati tra le varie classi dell’Accademia. Suo formatore e ispiratore è il professor Alberto Moretti.
Ciao Dennis, parlaci del tuo percorso di formazione.
Il mio percorso è iniziato nel 2020-2021 ed è ancora in corso. È partito tutto dal Liceo artistico “Cesare Battisti” di Velletri, dove in realtà non è stata presentata “Moda”, che in effetti è un qualcosa che non viene molto presentato soprattutto nei licei, ma poi mi sono informato sul percorso di “Fashion Design” dell’Accademia di Belle Arti, dove c’è una sezione di Cultura e Tecnologia della Moda. Ho deciso di fare l’Open day, che mi è piaciuto così come mi sono piaciuti i professori. Ho notato che era un qualcosa di pratico e di importante e quindi ho deciso di intraprendere questo percorso più pratico che teorico; laboratoriale.
Il mio obiettivo è quello di diventare designer, poi illustratore, anche se questo non è ancora molto chiaro, perché in realtà dipende molto da quello che cercano le aziende. Mi devo laureare in estate e sto pensando a una specializzazione. Mi fido molto dei professori e voglio parlare con colui che sarà il mio relatore, per farmi indirizzare. Le opportunità formative sono varie, sia in Italia, che fuori. Al momento ho tre opzioni di studio che ho scelto perché ti formano di più dal punto di vista stilistico, del disegno, partendo da un foglio bianco, con la scelta di un tema, l’avvio del progetto in base alle sue finalità e poi la collezione.
Quando hai iniziato con le collezioni?
In effetti, da subito. In Accademia ti fanno cominciare con questa esperienza anche senza una base da fashion designer. Io avevo una base artistica. Riproducevo quadri, disegnavo dal vivo, ma non c’entrava nulla con il fashion design, per il quale c’è stata una grande crescita grazie al fatto che fin dall’inizio ci hanno fatto progettare una collezione senza prepararci prima con la teoria, ma facendoci realizzare il bozzetto per esprimere le idee, lo stile e la fantasia. Sono arrivato a un buon livello, per il momento.
Quali sono i tuoi obiettivi come stilista? Che messaggio vuoi veicolare attraverso la tua moda e arte?
Attraverso l’immagine e l’estetica, perché di questo si tratta, che è la cosa più futile e immediata che vediamo, voglio dare un messaggio di bellezza ma anche sensibile e sociale. Nel caso della collezione che ho creato, ho affrontato il tema del razzismo, purtroppo sempre attuale, per sensibilizzare quelle persone che sono disposte a recepire. Non è un tema per tutti. Le sfilate sono giustamente a numero chiuso perché sono solo per chi ha voglia veramente di capire qualcosa. Altrimenti si vede tutto come un bel vestito. Non nego che nel mio percorso ci saranno anche temi più futili, anche perché ti devi far conoscere anche dal livello artigianale e delle idee sartoriali, ma nella maggior parte dei casi, vorrei mandare un messaggio a tutti, senza limiti di età.
Ho creato questa prima collezione con Simonetta Del Ferraro, la mia sarta aiutante senza la quale non avrei potuto fare niente. Una cosa che ho capito in Accademia è che da soli non è possibile fare tutto ciò. C’è sempre bisogno di un team, di “più mani”. In questo ambiente è fondamentale. Lei mi ha capito da subito. Le facevo vedere il disegno e lei capiva tutto senza che le dicessi nulla. Nella collezione cito le maschere che coprono i volti, tranne che a due modelli perché incarnano esattamente il soggetto dell’afroamericano.
Gli adulti a cui Simonetta faceva vedere il progetto lo consideravano strano ed è così, ma l’intento è proprio quello di incuriosire, di far capire “i perché” oltre l’estetica: i perché delle maschere, della rete da basket impunturata su una giacca, di un gilet da football americano. C’era bisogno di immedesimarsi in quello e lei, a differenza di queste altre persone, l’ha fatto da subito. L’importante è che questo, prima o poi, avvenga.
Parliamo allora dei dettagli della collezione che, esteticamente, ha tutti questi riferimenti sportivi.
Ho fatto sfilare quasi sempre i modelli con la maschera, perché volevo che i presenti si immedesimassero nel personaggio che sfilava, con il volto anonimo e che rappresentava il contesto, in questo caso del razzismo subìto dal popolo afroamericano da molti anni a venire e il loro rilancio soprattutto grazie allo sport e alla musica.
Infatti, nella collezione ci sono entrambe le cose: la musica in stile “ghetto”, con volumi esagerati, pantaloni lunghi e larghi, l’abbigliamento da strada mescolato a dettagli chiave relativi allo sport, come la rete da basket e il giubbino con i due palloni da football americano, con le cuciture tipiche. Tutti dettagli riconoscibili da subito. I colori sono quelli più utilizzati nei graffiti dagli anni Settanta ai Duemila, prendendoli tra quelli che si abbinavano meglio, come il blu elettrico e il giallo ocra, il verde acqua, colore più chiaro, e poi il nero e il bianco, che sono due colori neutri sempre presenti e che hanno la funzionalità di far risaltare gli altri colori.
Rispetto alla tua idea di moda e ai tuoi propositi futuri, conta di più l’aspetto puramente artistico che veicola un messaggio oppure l’idea di una finalità commerciale, con capi acquistabili e indossabili?
Io credo che ci siano delle fasi che è importante riconoscere. Secondo me, nel progetto di un emergente ci deve soprattutto essere un messaggio e quindi, come in questo caso, la pura arte. Fin dall’inizio ho pensato a questa collezione senza considerare l’indossabilità. L’esagerazione delle forme è volutamente pensata per esprimere l’imponenza di quello che è subìto dalle vittime di razzismo. È un’idea esclusivamente artistica che va fatta conoscere; è un qualcosa che porta a farti delle domande.
La fase successiva è “Ok, bello. Ma come lo indossi?” Possiamo considerarla, ad esempio, anche come un restyling dei pezzi della collezione ai fini commerciali, per un pubblico giovane, comprese le maschere che possono diventare un cappello, così come ai giubbini possono essere accorciate le maniche per poter utilizzare le mani. Sicuramente, per quanto mi riguarda, parliamo di moda destinata a un pubblico maschile.
I tuoi prossimi progetti?
Per il momento non ci sono sfilate in vista. Noi ragazzi selezionati per AltaRoma avremo forse la possibilità di farne per la prossima edizione, non per forza con gli stessi progetti. Attualmente sto lavorando a uno nuovo, sempre sugli stessi volumi, ma un po’ più elegante.
C’è un fashion designer che ti ha ispirato particolarmente?
Sì, la mia musa è stato Virgil Abloh e lo è tutt’oggi, prima di tutto a livello umano. Quando è scomparso ha lasciato reperti che secondo me faranno parte del mondo della moda per moltissimo tempo. A me piace molto variare, per cui non seguo stilisti nello specifico, ma lui è stato proprio il primo che ha acceso in me la passione. Non si occupava solo di moda, lui portava la sua arte sugli abiti, che è anche il mio obiettivo: l’arte indossata.