Oggi mi soffermo a segnalarvi il film “Lei mi parla ancora“, film diretto da Pupi Avati e ispirato all’omonimo romanzo di Giuseppe Sgarbi (padre di Vittorio).
Non è una recensione, ma la verbalizzazione anzi la scrittur-azione a caldo del dono che la visione di questo film mi ha lasciato.
Trama del film: la storia di un grande amore, quello di Nino (Renato Pozzetto) e Caterina (Stefania Sandrelli), una coppia di anziani sposata ormai da 65 anni.
Tra i due è stato amore a prima vista, ma quando Caterina viene a mancare a Nino cade il mondo addosso.
Elisabetta, la figlia della coppia, prova ad aiutare il padre a superare questo momento di sconforto.
Ha l’idea di presentare a suo padre Amicangelo (Fabrizio Gifuni), editor e aspirante scrittore, incaricato di raccogliere i ricordi di Nino e farne un romanzo d’amore.
Amicangelo si ritrova più volte a scontrarsi con l’anziano, in quanto i due presentano caratteri totalmente opposti.
Entrambi, però, col tempo riusciranno a superare queste discordanze e a instaurare una forte amicizia, grazie alla condivisione dei ricordi personali di Nino…
Ciò che amo particolarmente della struttura del film, sono i parallelismi tra passato e presente in cui le vicende dei protagonisti si intrecciano; e quelli tra il sogno e la realtà, dimensione felliniana in cui è molto interessante l’interazione tra la coscienza di Nino e i vari personaggi che parlano con lui: si distinguono personaggi-memoria, riflesso della sua coscienza, e chi invece è lì ‘presente’ per dargli un messaggio… Vadim Zeland ne sarebbe fiero!
Molto bella la citazione de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, film allegoria sulla morte proiettato in un cinema di paese, dalle parti di Ferrara. Sì, perché il film di Avati in effetti è una riflessione sulla perdita che trasforma le coscienze di chi la subisce, sulla paura della solitudine.
Ma ciò che mi ha colpito profondamente sono gli autentici insegnamenti trasmessi con suo stesso stupore da Nino, l’anziana e genuina fonte di saggezza che racconta di un tempo che oggi noi, che andiamo sempre di fretta e ci fermiamo molto poco ad ascoltare davvero noi stessi e gli altri, ci sognamo: il tempo da cui ci lasciamo accompagnare e non trascinare, che nel film è rappresentato dal lento – rispetto al 2021- fluire degli anni ’50.
Chi si prende il tempo di raccontare un amore durato una vita? Di qualsiasi tipo, aggiungerei.
Il ricordo dei dettagli che non si perdono perché impressi nella pellicola della vita grazie alle emozioni.
Dal minuto 53 i miei occhi si sono illuminati, quando il tempo sembra fermarsi e un Nino che era sembrato sempre confuso e in negazione del dolore, d’improvviso seduto e a testa china, si apre al dettagliato ricordo dicendo: “Mi sto rendendo conto che…”
Si tratta della frase da cui ha origine il lucido racconto di 65 anni di vita.
Inizia da una presa di coscienza.
Ecco nel film Nino dirà spesso quella frase o “mi accorgo che…” e si tratta proprio dei momenti in cui il mondo apre le porte alla saggezza, al succo della vita, alla guarigione del cuore.
Lo stesso Nino a fine racconto dinanzi a un registratore, si stupirà dell’importanza delle sue parole a dimostrazione, secondo me, di quanto abbiamo in noi ma non gli diamo abbastanza voce… ma quando ciò accade, è un flusso d’oro che se arriva e tocca i cuori, tutto trasforma.
Una nota particolare la voglio fare su Renato Pozzetto. Abituata a vederlo in ruoli comici, mi ha davvero incantata in questo ruolo drammatico e mi ha commossa perché ha incarnato allo stesso tempo l’anziano saggio che si rammarica perché “quando si è vecchi non ci si abbraccia più” quasi fosse un gesto scontato, e il dolce bimbo che in sogno davanti alla moglie che andrà via, la prega di non lasciarlo solo, perché “non è capace”.
La mia scena preferita è quando Nino e lo scrittore, che sta partendo per Roma in macchina, si salutano a libro ultimato e Nino lo congeda con una frase meravigliosa di Cesare Pavese, la stessa frase che aveva sigillato una promessa d’amore tra Nino e la sua Rina:
“L’uomo mortale non ha che questo d’immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia“.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò (1947)
Amicangelo: «Immortale… una parola che oggi non usa più nessuno»
Nino: «Bella però, no?»
«Mi sono accorto che mi stavo innamorando di lei ma quella volta (che la vidi) ho voluto che fosse per sempre».
Vi consiglio vivamente il film che rende straordinario il racconto di un amore tutto sommato ordinario… forse.
Per chi ha Amazon Prime, il film è disponibile.
Di seguito il trailer.
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